martedì 14 dicembre 2010

Freddo al cuore


Entrò barcollando e sbattendo violentemente la porta sulla parete due, tre volte. Assolutamente ubriaco marcio, sporco, con una barba lurida e bagnata dalla neve, gli occhi lacrimosi, arrossati e spersi. Il volto congestionato dal freddo, il giaccone pesante, strappato e cadente, coperto da uno strato di neve ghiacciata sulle spalle e lungo le maniche. Le mani grassoccie e spaccate dal freddo si aggrappavano annaspando allo stipite, cercando la maniglia della porta che stava da tutt'alttra parte. Dondolava in una danza triste e circolare, tenendo i piedi fermi nello stesso punto. Il suo cappellaccio gli stava cadendo sugli occhi, i capelli ispidi, bagnati e rossicci, lunghi fino alle spalle gocciolavano e lui dondolava cercando il baricentro del suo corpo muovendo lentamente il bacino come a formare una specie di ellissi, come a voler imitare una sgraziata danzatrice araba. Entrò muovendosi un po' di sbieco, come un uccello senza un'ala e strascicando gli enormi scarponi mascherati di neve bianca e gelida. Provò con un ampio gesto maldestro del braccio a chiudere la porta alle sue spalle. La porta rimase aperta. Qualcuno la chiuse per lui, fermando il gelo che stava invadendo la stanza. Si avvicinò al bancone e ordinò un whisky sbiascicando e mormorando qualcosa, ma di quel qualcosa si capì solo la parola "whisky".
Si agrappava al bancone appoggiato con entrambi gli avanbracci al ripiano; qualcuno gli passò uno sgabello e lui provò a salire, ma non ci fu verso: lo usò come sostegno, appoggiandovi le nocche di una mano come avrebbe fatto un grosso gorilla, mentre con l'altra cercava di afferrare il bicchiere. La neve gli si stava sciogliendo fra le rughe del volto, scorrendo sulla pelle bruciata dal freddo e alla neve si mescolavano lacrime ed alle lacrime borbottii inframmezzati dai singhiozzi. Tutti lo guardavano e tutti si curavano di non vederlo. Il barista si limitava a passare lo strofinaccio sul bancone per asciugare le grosse gocce che vi cadevano. Era patetico e lo sapeva, ma non se ne curava e fingeva di ridacchiare fra sè e sè. Doveva soffrire, presumo, perchè quello era il giorno giusto; perchè nevicava, perchè lui era patetico e perchè soffriva la vita, come se la vita fosse la sua sofferenza. Non si curava di nessuno. Non si curava di sè stesso. Cercava solo di sopportare, visto che era costretto ad esserci. Si mise a cantare e forse era una ninna nanna, ma che nessuno riconobbe come tale; la cantò per sè stesso, la cantò nella sua mente come fosse una melodia dolcissima e dalla sua bocca uscivano suoni incrinati, pastosi e insensati, ma lui non li sentiva; lui forse sentiva la voce di lei, le vibrazioni del suo petto mentre lo tenevano stretto; sentiva delle braccia calde e sentiva il battito del suo cuore e il canto, leggero come fossero una sola cosa. Prese il suo terzo whisky e si portò al tavolo nell'angolo; riuscì a sedersi, bevve tutto, appoggiò la testa sul tavolo e dormì in una posa patetica e scomposta, come la sua sofferenza.  

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