martedì 14 dicembre 2010

Giorno Azzurro



Lei, la piccola capanna costruita dai pastori, è la prima tappa di oggi e ci sono arrivata dopo una salita di due ore, giusto in tempo per vederla illuminarsi di neve con il primo sole ancora freddo. Felice di rivederla; così diversa con i colori del gelo, la scorgo fra gli alberi. Mi sento a casa e lei mi accoglie come se mi riconoscesse e mi aspettasse da quell'ultima volta. E mi ha riconosciuta, lo sento, come se io ogni sera tornassi da lei per godermi il silenzio assoluto della nostra montagna. Lei, così piccola eppure così solida e tenace, qui in quota e in condizioni proibitive resiste da molti più anni di quanti cerchi di resistere io ovunque vada. E' rassicurante ritrovarla così e ogni volta sempre lei, con la sua aria che sa di gente antica che l'ha vissuta prima di me e di fumo di tanti fuochi accesi e di resine crepitanti, di legno secco, di briciole di pane lasciato cadere fra le sue assi e divorato dalle arvicole, di scarponi pesanti e di lana bagnata e stesa ad asciugare.
Lei che sa più di tutto di luce e di freddo ora, e di licheni ghiacciati.
Poco più a monte della piccola capanna, il sole sta facendo capolino alla sommità dell'ampia radura e dopo una camminata nel folto di un bosco immobile e gelido, il primo raggio di sole mi accoglie timido e dolce. Immobile lo guardo; il freddo arriva ai miei piedi filtrando dagli scarponi immersi nella neve e poi sale lungo le gambe e si insinua fra i vestiti pesanti. Non voglio sentire il freddo e non mi muovo; osservo gli attimi che si susseguono e lo vedo nascere; il cuore mi pulsa forte, un po' per la salita appena fatta e un po' per l'emozione di essere arrivata in tempo. E' come se ci fossimo dati appuntamento lì in quella radura io e il sole, e sembra che mi avesse aspettato fino a questo momento per farsi vedere e per rendere l'aria meno cruda, per riscaldarmi un po' questa pelle bruciata dal freddo al mio arrivo, per prepararmi ai colori che si solleveranno con lui fra poco.
Ed eccola la luce fredda e tanto attesa: si alza a riempire l'aria ed i vecchi sorbi, tenaci, piegati in posizioni innaturali dal peso di tante nevi passate, continuano il loro sonno scaldandosi la pelle scagliosa e grigia sotto a ciuffi di licheni rassegnati, come le barbe di un vecchio millenario che attende altro tempo. La neve sui loro arti, durante la notte si è fusa in ghiaccio e si avvinghia ai rami ritorti, feriti, piegati e pazienti; si lascia sciogliere un poco sotto la luce, ma non cade, come se ne stesse chiamando dell'altra, rivolgendosi a un cielo che però oggi è decisamente avaro.
Mi siedo sullo scalino davanti all'uscio della piccola capanna per riscaldarmi un po' al sole.
Alzo lo sguardo da sotto l'ala del tetto e lo vedo. Svetta immobile; non un filo di vento, sembra il condottiero indiscusso di un esercito di abeti. Guardo i suoi rami che si scompongono in alto, come fossero l'estremità ribelle che sugge il sole per elevarsi ancora. Lo guardo mentre lui è rivolto fiero al suo regno, alla sua terra fatta di roccia e la scruta dal punto più favorevole. E' uno dei larici più alti che io abbia mai visto ed è bello e potente e lassù guarda gli abeti, fitti, chiusi, troppo verdi e troppo cupi; loro laggiù in basso, sono troppo distanti perchè con lui possano intendersi. E' luminoso e libero, ed è leggero, cresciuto tanto perchè gli piace andare dove la terra è lontana per poter guardare oltre. Lui, il re, è il primo che arriva sui suoli più difficili e non li teme ed è il primo che raggiunge il sole, che cresce con foglie di luce, verdi e tenere in estate, dorate e calde in autunno; e non soffoca, non opprime e mantiene solido l'ancoraggio; per svettare ancora più in alto, per vivere di più, per salutare e sfidare il cielo e le tempeste e il fuoco dei lampi e la pioggia. Perchè lui è il re!

Freddo al cuore


Entrò barcollando e sbattendo violentemente la porta sulla parete due, tre volte. Assolutamente ubriaco marcio, sporco, con una barba lurida e bagnata dalla neve, gli occhi lacrimosi, arrossati e spersi. Il volto congestionato dal freddo, il giaccone pesante, strappato e cadente, coperto da uno strato di neve ghiacciata sulle spalle e lungo le maniche. Le mani grassoccie e spaccate dal freddo si aggrappavano annaspando allo stipite, cercando la maniglia della porta che stava da tutt'alttra parte. Dondolava in una danza triste e circolare, tenendo i piedi fermi nello stesso punto. Il suo cappellaccio gli stava cadendo sugli occhi, i capelli ispidi, bagnati e rossicci, lunghi fino alle spalle gocciolavano e lui dondolava cercando il baricentro del suo corpo muovendo lentamente il bacino come a formare una specie di ellissi, come a voler imitare una sgraziata danzatrice araba. Entrò muovendosi un po' di sbieco, come un uccello senza un'ala e strascicando gli enormi scarponi mascherati di neve bianca e gelida. Provò con un ampio gesto maldestro del braccio a chiudere la porta alle sue spalle. La porta rimase aperta. Qualcuno la chiuse per lui, fermando il gelo che stava invadendo la stanza. Si avvicinò al bancone e ordinò un whisky sbiascicando e mormorando qualcosa, ma di quel qualcosa si capì solo la parola "whisky".
Si agrappava al bancone appoggiato con entrambi gli avanbracci al ripiano; qualcuno gli passò uno sgabello e lui provò a salire, ma non ci fu verso: lo usò come sostegno, appoggiandovi le nocche di una mano come avrebbe fatto un grosso gorilla, mentre con l'altra cercava di afferrare il bicchiere. La neve gli si stava sciogliendo fra le rughe del volto, scorrendo sulla pelle bruciata dal freddo e alla neve si mescolavano lacrime ed alle lacrime borbottii inframmezzati dai singhiozzi. Tutti lo guardavano e tutti si curavano di non vederlo. Il barista si limitava a passare lo strofinaccio sul bancone per asciugare le grosse gocce che vi cadevano. Era patetico e lo sapeva, ma non se ne curava e fingeva di ridacchiare fra sè e sè. Doveva soffrire, presumo, perchè quello era il giorno giusto; perchè nevicava, perchè lui era patetico e perchè soffriva la vita, come se la vita fosse la sua sofferenza. Non si curava di nessuno. Non si curava di sè stesso. Cercava solo di sopportare, visto che era costretto ad esserci. Si mise a cantare e forse era una ninna nanna, ma che nessuno riconobbe come tale; la cantò per sè stesso, la cantò nella sua mente come fosse una melodia dolcissima e dalla sua bocca uscivano suoni incrinati, pastosi e insensati, ma lui non li sentiva; lui forse sentiva la voce di lei, le vibrazioni del suo petto mentre lo tenevano stretto; sentiva delle braccia calde e sentiva il battito del suo cuore e il canto, leggero come fossero una sola cosa. Prese il suo terzo whisky e si portò al tavolo nell'angolo; riuscì a sedersi, bevve tutto, appoggiò la testa sul tavolo e dormì in una posa patetica e scomposta, come la sua sofferenza.  

La lince: una spietata bellezza


Spesso penso che la Vita sa essere fonte inesauribile di meraviglia e bellezza nell'identica misura in cui sa essere spietata e tremenda.  

La lince è un'animale meraviglioso.  La sua "personalità animale" potrebbe essere resa chiara vedendo un po' come caccia e come mangia; perchè se per noi umani è vero il detto: "dimmi cosa (e come) mangi e ti dirò chi sei" a maggior ragione lo è per gli animali.

La lince è un cacciatore altamente specializzato; carnivora, ovviamente.Come tutti i felini che si rispettino, caccia in agguato e sfrutta l'effetto sorpresa. Dotata di grande forza ed agilità, esegue dapprima una breve rincorsa e poi, con un balzo finale, afferra la preda e la finisce con un morso preciso e feroce alla gola. Il morso preciso è essenziale perchè la preda non soffra. La lince, come il lupo e come  tutti i predatori è abilissima in questo. Molto meno lo sono i cani rinselvatichiti che, avendo perso in parte l'istinto e l'abilità dei predatori, spesso afferrano le prede nelle parti posteriori, portandole ad una morte lenta e dopo lunghe, dolorosissime agonie.
La lince no. Il lupo no. Sono efficacissimi nella loro capacità di "finire le prede in brevissimo tempo".
A volte la lince trascina via la sua preda dal punto dove l'ha uccisa e come conviene a ogni buon predatore che si rispetti, la nasconde con fogliame, terra, erba o neve.
Durante il giorno si allontana dalla preda ritirandosi in un giaciglio; e lì rimane, immobile.
E' difficilissimo avvistare una lince in libertà: molto, ma molto raro.
Ritorna alla preda solo di notte e per diverse notti, mangiando in media 2-3 Kg. ogni volta.
Non vengono asportate singole parti della preda; lei consuma con metodo, boccone dopo boccone.
Come una perfetta buongustaia scarta alcune parti che non la soddisfano: il tratto digerente, le ossa più grandi, la pelle e la testa.
Prede di piccola taglia invece, come lepri o i piccoli di ungulati (capriolo per lo più) alle prime settimane di vita, vengono divorate completamente. Normalmente, inizia a mangiare la preda dalle cosce, meno frequentemente dalle spalle, per poi procedere, con metodo si diceva, a divorare il resto. Una caratteristica tipica della lince è che durante il consumo della muscolatura della preda la pelle viene rivoltata e spinta con il muso in avanti, fino ad arrivare, a volte, ad avvolgere la testa della vittima. Rimane solo il "guscio" svuotato e rivoltato. la pelle che copre la testa ricorda un po' il lenzuolo che noi umani distendiamo sui morti. Quello della lince, visto dal nostro antropocentrico punto di vista potrebbe essere un inconsapevole atto di pudore e rispetto per la preda, come dice qualcuno. (?) Ma personalmente non credo che lei si sia mai posta il problema in realtà...

Nuvole


Ci potrei scommettere: è lui! -
- Chi? -
- Lui, Dio! -
- E perchè ti viene in mente Dio adesso? -
- Beh, stavo guardando quella nuvola lassù...sembra Dio! Sembra proprio Dio. -
- Ma perchè? Tu sai com'è fatto Dio per caso? -
- Certo: è così, vedi? Come quella nuvola lassù! Tale e quale! -
- Bah, io non lo vedo. Io non vedo nessun Dio. Io ci vedo un'anitra, pensa! La vedi lì? La vedi che culone che ha?-
- Macchè, non è un'anitra! E' Dio, te lo dico io. E' tale e quale a come me lo sono sempre immaginato. -
- Ah si? E com'è che te lo sei immaginato? Sentiamo... -
- Beh, innazitutto ha una barba lunga e ... -
- Seee e i bafffoni e l'aureola e il dito proteso verso Adamo! Ma và, quel Dio lì se lo è inventato un pittore. Il coso lì, come si chiama? -
- Michelangelo. -
- Ecco, appunto, Michelangelo. Tu non ti sei immaginato niente, hai copiato da lui. -
- Vabbeh... e allora? -
- E allora chi ti dice che Dio sia proprio fatto così, ammesso che esista. -
- Esiste. esiste.-
- E come fai a dirlo? L'hai mai visto tu? -
- Ma di persona no, è ovvio, ma l'immagine è lassù, vedi? E' lì, anzi adesso si è messo un po' di profilo, vedi? Ha il naso aquilino, ma pensa! E chi se lo aspettava! -
- Cominci a preoccuparmi... Lassù, ma dove?
- Lì,lì! -
- Lì? Ma io ci vedo un dragone di quelli cinesi lì! Guarda che ferocia, che fiammata di fuoco che gli esce! Guaaardah, ha anche le pinne! No, come si chiamano? le squame, ha le squame sulla schiena, le vedi? E' proprio un dragone! -
- Ma guarda che quella è la veste di Dio! -
- Ma doooveee? Quello è un drago, te lo dico io! E e e guardaaa, adesso si trasforma! E' una scrofa, una scrofona! la vedi? Hai visto quante zizze all'insù? Quante mammelle? Hai visto? ...tre...quattro...cinque..._
- Non essere blasfemo! Un drago passi, ma una scrofa! Non puoi confondere Dio con una scrofa! -
- E chi lo confonde? Quella è una scrofa! Che c'entra Dio? -
- Ma tu dove stai guardando, scusa? -
- Ma lì, vedi? Lì! A destra dove prima c'era il drago! NOn la vedi? E' una scrofona enorme! Guarda che muso piatto che ha! -
- Boh... io non la vedo; di quà invece si vede Dio... Ma che fai, ti alzi?-
- Sì, mi son stufato! Mi spieghi perchè io lassù ci vedo tutto il creato e tu sei fissato solo su Dio?-
- Ma perchè? Che differenza c'è?-
- ...-
- Allora? -
- Bo. Il creato ha una forma, una sostanza, lo puoi vedere, toccare eccc... Dio mica lo vedi e nemmeno lo tocchi.-
- Ma allora ammetti che esite?-
- Ma che centra! No, Non lo so se esite, io non l'ho mai visto! Quindi per me non esiste! -
- Però hai il dubbio che esista! -
- Certo che ho il dubbio. Come ho il dubbio forte che non esista! E se esiste mi spieghi perchè dovrebbe esistere? Che funzione avrebbe? Non dirmi quella di creare il creato perchè quello c'è già! E non dirmi che visto che il creato c'è già Dio ha il compito di amministrarlo perchè per come vanno le cose, allora bisognerebbe fargli urgentemente un corso di marketing avanzato! -
- Beh, non lo so che funzione ha sinceramente... forse di farci discutere sulla sua esistenza o meno. E' strano che tutti discutano su sto fatto, non trovi? -
- Appunto. E' strano che noi si stia qui a discutere su una cosa che non esiste come se fosse la norma. Voglio dire: se discuti sull'esistenza di Dio per tutti è una cosa normale, se discuti sull'esistenza degli Ufo sei un invasato schizzofrenico! -
- Ma perchè tu pensi che gli ufo esistano? _
- Non ho detto questo! -
- Però hai il dubbio che esistano!? -
- Ma vaff...!!-
- Te ne vai? Noooo, dai! Ma perchè ti incazzi sempre così? Ho solo chiesto...-

FRAGOLE

Un profumo dolcissimo di fragole ed erba e una brezza leggera mi svegliarono come una carezza; mi ero addormentata sull'erba fra la festuca e l' acetosella e le foglioline e i piccoli fiorellini bianco-rosato mi solleticavano le orecchie. Quando aprii gli occhi vidi i rami del mio larice che si stagliavano su un cielo blu meraviglioso e limpido e dalla base del tronco vedevo la corteccia solcata e grinzosa, antica e bruciata dal sole, che seguiva verso l'alto la linea cilindrica dell'enorme albero; altri tronchi più piccoli ne uscivano a raggiera creando una ragnatela di rami via, via sempre più sottili, cadenti e decorati da piccoli aghi verdi e teneri. Allungai una mano verso una fragolina rossissima, piccola e sola che spiccava sul verde brillante dell'erba, proprio all'altezza della mia tempia; la vidi prima con la coda dell'occhio e poi mi girai e la guardai: un po' più grande di un chicco di gran turco, brillante e di un rosso pieno, caldo, maturo. La colsi fra due polpastrelli, con precauzione, dandole un piccolo mezzo giro e lei subito si staccò docile dalla sua coroncina a stella.
L'appoggiai sulla lingua, come fosse un minuscolo dono e avvicinandola alla bocca ne sentii subito il profumo dolce; la premetti piano contro il palato, senza masticarla, tenendola lì finchè il succo non si fosse amalgamato un po' con la saliva e non si fosse insinuato da solo nelle papille: attesi alcuni secondi  e di colpo il sapore di sole, di bosco, di linfa dolce e profumata di resine, di legno e di miele entrò nella mente e saturò il tempo. Non si può non sorridere in quei momenti; e infatti sorrisi per poi accorgermene con un po' di imbarazzo e per poi pensare che " il Mondo sa essere davvero buonissimo".
Mi girai con la faccia verso il sole e sentendone il tepore sulle palpebre, mi beai dell'istante che cercavo di far durare ancora un po'. La briciola di polpa si mosse e si sciolse; sentii i piccoli granuli del frutto che si disperdevano e scomparivano. Sospirai e quando ancora il profumo persisteva da qualche parte nella mia mente, mi misi in bocca un filo di festuca per "compensare l'istante di vuoto" e lasciando che i ciuffi dei suoi semi mi accarezzassero il mento. E poi dormii di nuovo.


Un profumo dolcissimo di fragole ed erba e una brezza leggera mi svegliarono come una carezza; mi ero addormentata sull'erba fra la festuca e l' acetosella e le foglioline e i piccoli fiorellini bianco-rosato mi solleticavano le orecchie. Quando aprii gli occhi vidi i rami del mio larice che si stagliavano su un cielo blu meraviglioso e limpido e dalla base del tronco vedevo la corteccia solcata e grinzosa, antica e bruciata dal sole, che seguiva verso l'alto la linea cilindrica dell'enorme albero; altri tronchi più piccoli ne uscivano a raggiera creando una ragnatela di rami via, via sempre più sottili, cadenti e decorati da piccoli aghi verdi e teneri. Allungai una mano verso una fragolina rossissima, piccola e sola che spiccava sul verde brillante dell'erba, proprio all'altezza della mia tempia; la vidi prima con la coda dell'occhio e poi mi girai e la guardai: un po' più grande di un chicco di gran turco, brillante e di un rosso pieno, caldo, maturo. La colsi fra due polpastrelli, con precauzione, dandole un piccolo mezzo giro e lei subito si staccò docile dalla sua coroncina a stella.
L'appoggiai sulla lingua, come fosse un minuscolo dono e avvicinandola alla bocca ne sentii subito il profumo dolce; la premetti piano contro il palato, senza masticarla, tenendola lì finchè il succo non si fosse amalgamato un po' con la saliva e non si fosse insinuato da solo nelle papille: attesi alcuni secondi  e di colpo il sapore di sole, di bosco, di linfa dolce e profumata di resine, di legno e di miele entrò nella mente e saturò il tempo. Non si può non sorridere in quei momenti; e infatti sorrisi per poi accorgermene con un po' di imbarazzo e per poi pensare che " il Mondo sa essere davvero buonissimo".
Mi girai con la faccia verso il sole e sentendone il tepore sulle palpebre, mi beai dell'istante che cercavo di far durare ancora un po'. La briciola di polpa si mosse e si sciolse; sentii i piccoli granuli del frutto che si disperdevano e scomparivano. Sospirai e quando ancora il profumo persisteva da qualche parte nella mia mente, mi misi in bocca un filo di festuca per "compensare l'istante di vuoto" e lasciando che i ciuffi dei suoi semi mi accarezzassero il mento. E poi dormii di nuovo.

Il cavallino pazzo dalla criniera d'oro

Arrivava all'improvviso sempre alla stessa ora: alle otto e venti in punto, quando sorgeva il sole e alle otto e diciannove tutti gli abitanti si preparavano al suo passaggio togliendo oggetti e tavolini dalle vie, proprio come se dovesse passare una corsa automobilistica.
Sfrecciava veloce il cavallino, facendo volare i giornali dell'edicola nell'aria e strappando i manifesti affissi davanti al Municipio. Quando passava per la piazza, nel bar bisognava tenere ben saldi bicchieri e tazzine perchè la terra tremava tutta e spesso la gente si versava il caffè sulle cravatte o sulle camicie, perchè presi dallo spavento.
Il cavallino passava ad una velocità impressionante e nessuno seppe mai dire se il suo manto fosse nero o marrone o di altro colore; andava troppo veloce! Ma una cosa era certa: la criniera era gialla, di un giallo talmente giallo che sembrava oro al sole e quando il cavallino sfrecciava per il paese la sua criniera sembrava un lampo preceduto dal tuonare dei suoi zoccoli.
I bambini si alzavano presto per veder passare il cavallino e chiedevano ogni mattina ai loro genitori:
- Ma da dove viene quel cavallino? E dove sta correndo? Perchè ha la criniera gialla?-
Ma i grandi non avevano tempo per pensare a dare delle risposte, perchè dovevano andare a lavorare, dovevano fare la spesa, portare i piccoli a scuola, andare dalla parricchiera e dal macellaio e da un mucchio di altre parti e dovevano andarci subito!
Un giorno un bimbo curioso sentì dire che alla fine del paese, in una vecchia cascina viveva un vecchio tutto solo e che quel vecchio sapeva la storia vera del cavallino dalla criniera d'oro. Allora un bel giorno, il bambino curioso andò a trovare quel vecchio e gli chiese:
- Nonno, tu lo sai da dove viene e dove corre il cavallino dalla criniera d'oro? -
E il vecchio rispose:
- Il cavallino c'è sempre stato, fin dall'alba dei tempi; ma corre sulla Terra solo da quando il Sole ha visto che gli uomini non si interessano più delle stelle, non fanno più caso al sorgere del Sole e al tramontare della Luna. Allora il sole ha mandato il cavallino sulla terra per ricordare agli uomini di guardare il cielo, perchè altrimenti non sapranno più dove sono e dove stanno andando. Il cavallino viene dalle praterie aride del Sud e corre fino ai ghiacci eterni del Nord e non si ferma mai. -
Allora il bambino chiese:
- E perchè passa sempre alla stessa ora? -
E il vecchio disse:
- Per ricordare alle persone del paese che il tempo scorre veloce e che quello che è adesso, domani non sarà più. Per ricordare alle persone che le cose che si devono fare ora, non si possono fare dopo... -
Allora il bambino guardò bene il vecchio e chiese:
- E tu come fai a sapere tutte queste cose? -
E il vecchio disse:
- Perchè io ero un bambino curioso una volta e un vecchio che abitava in questa cascina prima di me, me le raccontò. Se tu non fossi venuto a chiedermele, nessun' altro saprebbe perchè il cavallino pazzo passa per le vie del paese. -
Il bambino disse:
- Il parroco e la mamma mi dicono che non dovrei essere tanto curioso (
). Perchè? -
E il vecchio rispose:
- Perchè è più facile ignorare la realtà delle cose che porsi delle domande e provare a dare delle risposte. Tu puoi venire a farmi tutte le domande che vuoi da ora in avanti. -
E da quel giorno il bambino curioso salutava il sorgere del sole aspettando il passaggio del cavallino dalla criniera d'oro e di notte si metteva sul tetto a guardar le stelle e di giorno si sdraiava sui prati a gurdar le nuvole.

Il bosco

Quando piove, come oggi, i boschi sono percorsi da una nebbia velata che nasconde il cielo e rende la luce un po' cupa, un po' pesante, come se fosse filtrata da un enorme lenzuolo di canapa bianco. Ci si muove senza orientamento, da un tronco ad un altro, da un cuscino di muschi soffici ad una radura di erbe bagnate, fatte di steli lunghi e di foglie secche che si lasciano cadere, come piangessero, verso il suolo. Funghi di ogni colore e forma fanno capolino da dietro massi grigi e addormentati sotto coltri di muschi pesanti. Ci si muove con una certa circospezione, cauti, lenti; la nebbia nasconde enormi mostri che con gli arti protesi verso un cielo bianco e invisibile fanno capolino all'improvviso da dietro i tronchi secolari: sono le ceppaie divelte dal vento e dalla neve, misere nella loro posizione anomala, innaturale; guardano il cielo invisibile con enormi occhi vuoti, con zolle di terra nera, cadenti, frangiate dalle radici più giovani, ormai morte. Quando piove così, in questa stagione le foglie agrappate disperatamente ai rami, distendono un manto leggero sull'umidità sottostante, come se volessro proteggere il suolo, il sottobosco con i loro colori tenui, bagnati dalla pioggia e resi meno sgargianti dalla nebbia bianca e a tratti assumono il colore della neve, della luce più chiara. Quando piove come oggi ci sono solo io nel bosco e lascio che la pioggia e il silenzio ristoratore mi cadano addosso e mi facciano entrare in quella condizione di essere immerso nell'odore di legno bagnato, di resine piangenti, di muschi soffici, profondi, accoglienti e brillanti anche nell'oscurità uggiosa. Presenze invisibili si muovono fra i rami, fra le foglie; si sentono passi di piccoli zoccoli in corsa che si spostano furtivi, di ali e piume che si scrollano l'acqua di dosso, di insetti che mangiano il legno bagnato con le loro minuscole mandibole in perenne movimento. Si sente la Vita implacabile, dolcissima e tremenda nell'immobilità di un bosco bagnato, l'inevitabile susseguirsi di tragedie, di nascite, di morti e tutto nell'assoluto, discreto silenzio proprio di una Natura che con l'"umano" sbraitare ha poco a che fare.  


ALL’ALBA


Il bosco di notte è veramente magico ed il buio che ti circonda è come un mantello che protegge, che  accompagna verso il mattino, verso la luce del sole. E la luce arriva piano, prima appena percettibile e riesci a definire i contorni dei cespugli, dei tronchi degli alberi, dei grandi massi che costeggiano il sentiero; poi schiarisce impercettibilmente e le forme si solidificano in un grigio blu scuro che piano vira verso un indaco cupo per diventare  viola e grigie e azzurre .
C'è un momento particolare dell'alba che raccoglie tutti i sensi come se facessero parte loro stessi del processo di risveglio; in quel momento preciso l'occhio partecipa alla "creazione" delle forme, come fossero una vita nuova che assopita da sempre si risveglia e la vista ne segue l'evoluzione, la crescita.
Ponenodo attenzione si sente che il coinvolgimento è totale; è l'anima stessa che si risveglia.
Questo avviene nell'attimo preciso in cui la luce vira dal non visibile al visibile; in quel preciso istante ci si può sentire davvero parte del Mondo. Il bosco è il luogo dove questa sensazione all'alba la provo più spesso; non c'è nessun altro posto che mi fa stare così e una volta che il "momento magico" ha avuto modo di riempire il cuore di una commozione infinita, la luce calda può sorgere e l'occhio, la pelle, l'olfatto, l'udito ne seguono l'epifania e se ne lasciano rapire, cullare, accarezzare.
In quei momenti tutto il resto svanisce, mi sento al sicuro, mi sento "al mio posto".
La luce riempie l'aria, lentamente e il blu vira lento sull'indaco e poi sul viola e il viola si scalda, diventa un blu rosato e poi un rosa aranciato. Ed è l'alba viva: le resine profumano l'aria che lenta si alza più fresca; le cincie, i merli e le gazze cominciano il loro canto, gli scoiattoli si cominciano a muovere graffiando le corteccie con le loro piccole unghie; si sentono i passi dei cervi e il loro bramito possente che piano si alza, sempre più forte, imponente e quasi spaventoso, riempiendo la montagna con un eco che sale dal profondo della terra, che sa di meandri bui, di rito ancestrale.
Le foglie gialle e arancioni dei larici fiammeggiano fra il verde bottiglia degli abeti, all'orizzonte il sole si fa chiaro sull'orlo delle montagne e si insinua lungo il ripido pendìo con i suoi lunghi raggi, sollevando le lunghe ombre dei tronchi e delle foglie, colorando l'erba di un rosa aranciato che scalda il cuore.
La temperatura si fa più fredda, ma lo avverti solo nell'aria che ti sfiora il viso mentre tu cammini con il fiato corto, con la schiena bagnata sotto lo zaino, le gambe con i muscoli che "si ascoltano passo dopo passo" e che fanno leva portandoti verso la vetta; ascolti tutto, vedi tutto e partecipi a tutto con tutta te stessa; ed il cuore che segue il ritmo del tuo camminare è come se seguisse con il suo battito il ritmo della vita che riprende, che si risveglia al nuovo giorno. Arrivare in vetta all'aba è come rinascere ogni volta. L'autunno è la stagione paradossalmente più bella per rinascere all'alba; non c'è nessun'altra stagione che regala tanta gioia di colori caldi, tanto conforto nel fatto di sentirsi davvero vivi.

Questa mattina all'alba il mio bosco era colorato di azzurro e arancione. Mentre faceva ancora buio salivo il pendìo che mi avrebbe portata alla vetta e non c'era rumore, solo l'acqua del fiume in fondovalle ed il verso lamentoso delle civette nane da qualche parte, in alto, fra i rami dei larici.


La formula della felicità

Un vecchio del mio paese un giorno mi disse che aveva scoperto la formula della felicità. Sorrideva, ironico, come sempre. Io lo guardai e sorrisi a mia volta.
Il vecchio parlava con i suoi occhi azzurri e con uno sguardo sapeva dire molto e io avevo imparato a capire; me lo aveva insegnato lui.
Aspettai che andasse avanti con il suo discorso e tanto per incentivarlo un po' alla conversazione, mi misi a preparargli il caffè, togliendo la moka dalla vecchia credenza che lui stesso aveva costruito e intagliato molti anni prima, quando si sposò con la sua Maria.
"Ti ascolto" gli dissi. Il vecchio era una persona degna di stima. Tutti sapevano che aveva sofferto molto e nonostante questo, sorrideva spesso; continuava a ripetermi che da quando era morta la moglie, a volte, specie alla sera, pensava che il mondo, per quanto lo riguardava, avrebbe potuto tranquillamente fare a meno della sua invisibile presenza.
Nei suoi occhi si leggeva  il dolore, come fosse una musica di sottofondo che lo accompagnava sempre, ma vi si leggeva anche quell'ironica consapevolezza dell'importanza di esserci, di esistere; una consapevolezza che è rarissimo vedere negli occhi delle persone giovani, ma che a volte si trova.
Non lo so se è giusto così, ma è così.  
Gli misi la tazzina vuota sul tavolo e gli passai lo zucchero; "ti ascolto" gli dissi di nuovo sedendomi di fronte a lui, con i gomiti sul tavolo. Lui si alzò, si diresse  verso la porta e aprì l'uscio che dava direttamente su una vista spettacolare delle nostre montagne.
Si fermò qualche minuto a guardare, lasciò la porta spalancata e poi tornò al suo posto, vicino alla stufa accesa e sulla quale il caffè ora stava risalendo gorgogliando e riempiendo l'aria con il suo profumo. Gli versai il caffè e mi rimisi seduta di fronte a lui, in attesa.
Il vecchio mise i suoi soliti tre cucchiaini di zucchero nella tazzina e mentre girava il caffè facendo tintinnare il cucchiaino contro le pareti della tazzina, guardò di nuovo fuori dalla porta; guardò le sue montagne ed il suo acero che cresceva davanti alla casa e poi gurdò me. 
 " Per essere felici..." disse piano, come se mi bisbigliasse il suo segreto più prezioso, " bisogna pensare che la morte è molto meglio dell'umiliazione, del dolore, dell'invisibilità e del fastidio che un essere debilitato e stanco, fa ovviamente nascere in chi invece ha ancora la forza fisica per vivere."
Mi fissava e mi sorrideva. Stavo in silenzio e lui continuò, guardandomi fissa negli occhi, sorridendo.
"Per essere felici bisogna saper guardare le foglie di quell'acero lì fuori; bisogna saperle guardare quando a primavera sono solo dei germogli; bisogna saperlo guardare mentre i germogli si ingrossano e poi spuntano le prime punte tenere delle foglie; bisogna saperlo guardare mentre in estate produce i suoi frutti e mentre è nel pieno vigore e urla al mondo la sua forza e poi, poi bisogna saperlo guardare quando il colore delle foglie piano, piano cambia, quando cominciano a perdere un po' di verde e diventano un po' rosee e rosse e poi gialle e poi sbiadiscono e cadono. Bisogna saperlo guardare quando la linfa lo lascia lentamente al suo dormire, come sta accadendo adesso, vedi?"
Mi voltai a  guardare l'acero e guardavo l'aria autunnale che accompagnava le giornate sempre più brevi. Cercavo di osservare nel modo giusto, come lui mi stava insegnando. Cercavo di vedere nel modo giusto le grandi foglie che cadevano lente, cullate nella luce dall'aria leggera; le osservavo appoggiarsi a terra. Mi sentii però all'improvviso terribilmente triste.
Lo fissai di nuovo e lui continuava a sorridermi. Capii, perchè lui era un ottimo maestro e seguii l'esempio del vecchio e gli sorrisi. Mi strizzò l'occhio e bevve il suo caffè. In quel momento non avrei voluto lasciarlo più, avrei voluto che mi dicesse tutto quello che sapeva, che aveva vissuto; avrei voluto che mi parlasse ancora, come aveva fatto tante volte, che mi raccontasse di com'era il suo mondo quando c'era la sua Maria, di com'era quando tornò dalla Guerra, di com'erano le nostre montagne quando i pascoli ricoprivano i versanti. 
Avrei voluto che mi parlasse dei suoi figli morti, dell'amore per la sua donna, per le sue montagne. Avrei voluto  essere lui, per sapere che cos'era il suo mondo, che cosa aveva sentito e vissuto, ma mi resi conto che questo mio rincorrere i suoi ricordi era un qualcosa di poco sensato. E lui invece mi stava insegnando il modo più sensato e semplice di vivere il mondo. Mi stava insegnando a non essere egoista, ad accettare l'inevitabile. Era davvero il suo segreto più prezioso, quello.  
Nel suo insegnamento c'era una giustizia universale di fondo; una giustizia che spazzava via ogni meschino egoismo dalle nostre piccole vite.
Quando morì non piansi molto. Era pieno inverno e non c'erano foglie sugli alberi.