martedì 14 dicembre 2010

La formula della felicità

Un vecchio del mio paese un giorno mi disse che aveva scoperto la formula della felicità. Sorrideva, ironico, come sempre. Io lo guardai e sorrisi a mia volta.
Il vecchio parlava con i suoi occhi azzurri e con uno sguardo sapeva dire molto e io avevo imparato a capire; me lo aveva insegnato lui.
Aspettai che andasse avanti con il suo discorso e tanto per incentivarlo un po' alla conversazione, mi misi a preparargli il caffè, togliendo la moka dalla vecchia credenza che lui stesso aveva costruito e intagliato molti anni prima, quando si sposò con la sua Maria.
"Ti ascolto" gli dissi. Il vecchio era una persona degna di stima. Tutti sapevano che aveva sofferto molto e nonostante questo, sorrideva spesso; continuava a ripetermi che da quando era morta la moglie, a volte, specie alla sera, pensava che il mondo, per quanto lo riguardava, avrebbe potuto tranquillamente fare a meno della sua invisibile presenza.
Nei suoi occhi si leggeva  il dolore, come fosse una musica di sottofondo che lo accompagnava sempre, ma vi si leggeva anche quell'ironica consapevolezza dell'importanza di esserci, di esistere; una consapevolezza che è rarissimo vedere negli occhi delle persone giovani, ma che a volte si trova.
Non lo so se è giusto così, ma è così.  
Gli misi la tazzina vuota sul tavolo e gli passai lo zucchero; "ti ascolto" gli dissi di nuovo sedendomi di fronte a lui, con i gomiti sul tavolo. Lui si alzò, si diresse  verso la porta e aprì l'uscio che dava direttamente su una vista spettacolare delle nostre montagne.
Si fermò qualche minuto a guardare, lasciò la porta spalancata e poi tornò al suo posto, vicino alla stufa accesa e sulla quale il caffè ora stava risalendo gorgogliando e riempiendo l'aria con il suo profumo. Gli versai il caffè e mi rimisi seduta di fronte a lui, in attesa.
Il vecchio mise i suoi soliti tre cucchiaini di zucchero nella tazzina e mentre girava il caffè facendo tintinnare il cucchiaino contro le pareti della tazzina, guardò di nuovo fuori dalla porta; guardò le sue montagne ed il suo acero che cresceva davanti alla casa e poi gurdò me. 
 " Per essere felici..." disse piano, come se mi bisbigliasse il suo segreto più prezioso, " bisogna pensare che la morte è molto meglio dell'umiliazione, del dolore, dell'invisibilità e del fastidio che un essere debilitato e stanco, fa ovviamente nascere in chi invece ha ancora la forza fisica per vivere."
Mi fissava e mi sorrideva. Stavo in silenzio e lui continuò, guardandomi fissa negli occhi, sorridendo.
"Per essere felici bisogna saper guardare le foglie di quell'acero lì fuori; bisogna saperle guardare quando a primavera sono solo dei germogli; bisogna saperlo guardare mentre i germogli si ingrossano e poi spuntano le prime punte tenere delle foglie; bisogna saperlo guardare mentre in estate produce i suoi frutti e mentre è nel pieno vigore e urla al mondo la sua forza e poi, poi bisogna saperlo guardare quando il colore delle foglie piano, piano cambia, quando cominciano a perdere un po' di verde e diventano un po' rosee e rosse e poi gialle e poi sbiadiscono e cadono. Bisogna saperlo guardare quando la linfa lo lascia lentamente al suo dormire, come sta accadendo adesso, vedi?"
Mi voltai a  guardare l'acero e guardavo l'aria autunnale che accompagnava le giornate sempre più brevi. Cercavo di osservare nel modo giusto, come lui mi stava insegnando. Cercavo di vedere nel modo giusto le grandi foglie che cadevano lente, cullate nella luce dall'aria leggera; le osservavo appoggiarsi a terra. Mi sentii però all'improvviso terribilmente triste.
Lo fissai di nuovo e lui continuava a sorridermi. Capii, perchè lui era un ottimo maestro e seguii l'esempio del vecchio e gli sorrisi. Mi strizzò l'occhio e bevve il suo caffè. In quel momento non avrei voluto lasciarlo più, avrei voluto che mi dicesse tutto quello che sapeva, che aveva vissuto; avrei voluto che mi parlasse ancora, come aveva fatto tante volte, che mi raccontasse di com'era il suo mondo quando c'era la sua Maria, di com'era quando tornò dalla Guerra, di com'erano le nostre montagne quando i pascoli ricoprivano i versanti. 
Avrei voluto che mi parlasse dei suoi figli morti, dell'amore per la sua donna, per le sue montagne. Avrei voluto  essere lui, per sapere che cos'era il suo mondo, che cosa aveva sentito e vissuto, ma mi resi conto che questo mio rincorrere i suoi ricordi era un qualcosa di poco sensato. E lui invece mi stava insegnando il modo più sensato e semplice di vivere il mondo. Mi stava insegnando a non essere egoista, ad accettare l'inevitabile. Era davvero il suo segreto più prezioso, quello.  
Nel suo insegnamento c'era una giustizia universale di fondo; una giustizia che spazzava via ogni meschino egoismo dalle nostre piccole vite.
Quando morì non piansi molto. Era pieno inverno e non c'erano foglie sugli alberi. 

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